Articolo di Mara Accettura per “D Repubblica”
Elisabetta Biavasi tira un sospiro di sollievo. Per fortuna questo mese ha potuto avere 60 gr di infiorescenza e due barattolini di olio. Lei, che soffre di atassia e di una neuropatia, li prende da tre anni per controllare il dolore e il tremore. «Finalmente riesco a dormire la notte. E i benefici sull’epilessia sono pazzeschi», dice. Giura che funzionano meglio degli oppiacei, che pure ha assunto fino a pochi anni fa. «Alla fine avevo shock allergici, blocchi intestinali e non facevano più effetto». Ma lo scorso dicembre se l’è vista brutta: la cannabis nella sua farmacia era finita. Come lei migliaia di altri pazienti, ricetta alla mano, chiamavano a tappeto tutte le farmacie sul territorio nazionale e si infuriavano sui social. Stavano male, malissimo. «Dopo due mesi ero nel panico», va avanti Elisabetta. «Piena di dolori e ridotta a una larva di 45 chili. Mi alimentavo con il catetere. Ho avuto una trombosi». Con il decreto del 24 gennaio 2013 il Ministero della Sanità ha autorizzato l’uso medico della cannabis per il dolore cronico e associato a sclerosi multipla e lesioni del midollo, per la nausea e per il vomito associati alla chemio, radio, terapie per HIV, per stimolare l’appetito nell’anoressia o nei malati oncologici, nella sindrome de la Tourette e per l’effetto ipotensivo nel glaucoma. Di fatto, però, curarsi non è facile. Eccessiva burocrazia, stigma culturale (“è droga”), costi alti, disinteresse, contribuiscono a scoraggiarne l’uso. La legge la considera l’ultima spiaggia, una sostanza da somministrare solo quando le terapie convenzionali non funzionano più. I medici non la conoscono. E guai a parlarne: farmacisti come Marco Ternelli e Paolo e Matteo Mantovani, che ne avevano indicato la disponibilità sui loro siti, hanno avuto multe salatissime per pubblicità a stupefacenti; la stessa cosa non accade per gli oppiacei. Insomma, in Italia la cannabis è una faccenda spinosa. Viene prescritta in poche regioni, soprattutto al nord, grazie a dei pionieri: un pugno di medici che ne studiano gli effetti e farmacisti che sanno prepararla. Marco Bertolotto dirige il Centro di terapie del dolore e cure palliative della Asl di Pietra Ligure. Con 1.300 pazienti ne ordina 50 kg all’anno: una quantità enorme per una provincia. Eppure non basta. «C’è un’impennata delle richieste e la tendenza continua. Purtroppo nemmeno lavorando alla Asl riesco a garantire la continuità della terapia.
Quando la cannabis finisce i malati si disperano: ripiombano nel loro stato di dolore». Se questo accade nel pubblico in una regione in cui la cannabis è rimborsata, figuriamoci nel resto dell’Italia. «Ho pazienti con tumori cerebrali e bambini epilettici con autismo su cui funziona molto bene. Così come negli anziani con deterioramento cognitivo o Parkinson», dice Vidmer Scaioli, neurologo e neurofisiopatologo dell’Istituto Carlo Besta di Milano. «Sospendere e poi rimodulare la terapia crea grossi problemi. Ma non so che farci». Un problema politico. «Con il decreto legge del 2013 (DM 24 gennaio 2013) che ha trasformato una sostanza stupefacente in farmaco, il Ministero ha anche autorizzato la quantità massima che può circolare annualmente sul territorio italiano », spiega Marco Ternelli, farmacista a Reggio Emilia. Una volta decisa, non si può sforare. «Per esempio, a dicembre 2017 ha autorizzato 550 kg per il 2018, ma il fabbisogno reale è 3-4 volte di più». L’Italia importa in massima parte dell’Olanda, dalla ditta Bedrocan, quattro varietà mediche di infiorescenze da cui si estraggono i principi attivi. Si tratta di Bedrocan, Bediol, Bedrobinol, Bedica, alcune ad alto contenuto di THC – la temuta sostanza psicotropa – altre di CBD. La produzione di FM2, la varietà sativa (percentuali variabili di THC tra 5-8% e CBD tra 7-12%) coltivata dall’Istituto Farmaceutico Militare di Firenze – unico ente autorizzato dal Ministero per la cannabis medica – è infatti insufficiente, tanto che quest’anno si è aggiudicata un bando la ditta canadese Pedanios Aurora. «Il Ministero contava di spingere la produzione italiana per abbattere i costi ma, come ha dichiarato il colonnello Antonio Medica al Fatto Quotidiano, c’è un problema di serre, di personale e di budget», continua Ternelli. «L’anno scorso era chiaro da giugno che stava finendo, erano gli importatori a dircelo e l’Olanda non ne aveva più: ci vuole del tempo per farla crescere. Così è stata contingentata su tutto il territorio, finché è finita». Quest’anno si prospetta la stessa storia. Le proteste dei pazienti hanno dato luogo a interrogazioni parlamentari di vari gruppi, e petizioni su Change.org. Questa miopia burocratica, oltre a sprecare un’opportunità di business per i coltivatori italiani, sta incentivando un mercato nero parallelo. C’è chi la autoproduce, rischiando il carcere, e chi la compra da fonti dubbie. Come F., che aiutava il padre, malato oncologico terminale, a gestire il dolore. «Gli oppiacei non funzionavano più. Al culmine della disperazione, un’amica mi ha passato il nome di una signora, in precedenza malata di cancro, che si è data alla produzione illegale di olio. Prezzi abbastanza contenuti. Ho ricevuto la prima siringa di questo olio nero e così denso da essere duro, 5 gr per 130 euro da scaldare con olio d’oliva o di cocco». Toglierlo dalla siringa era difficilissimo, F. non riusciva a contare le gocce. «Mio papà è mancato il 12 aprile. Giorni dopo mi ha scritto una farmacia: “La contatto per informarla dell’arrivo del Bediol. Anche stavolta la quantità è limitata, le chiedo di confermare il suo interesse entro 24 ore”. Mi sono sentita presa in giro». «Alla politica la cannabis non interessa », spiega Bertolotto. «Non se ne capisce il valore sociale. I funzionari del ministero lavorano senza un input politico reale. Per esempio: la finanziaria del 2018 stabilisce che è a carico del servizio sanitario nazionale, ma la legge non ha copertura finanziaria e norme attuative. Non si prende la cosa in modo abbastanza serio. In alcune regioni come la Lombardia la si paga, in altre (11 in tutto, ndr) come l’Emilia Romagna, la Toscana e la Liguria, no. Dove le farmacie non vengono rimborsate, i pazienti devono comprare a carico loro». Alfredo Tundo, farmacista di Alliste, Lecce, conferma senza mezzi termini. «Non gliene importa niente a nessuno. Quando siamo partiti la burocrazia ha fatto di tutto per ostacolarci. Storie sul metodo di estrazione, controlli continui come se avessi il plutonio, ricette da scaricare sul registro stupefacenti e conservare per due anni, titolazione (analisi) con macchine molto onerose. In più, col prezzo fissato dal ministero (9 euro al gr, ndr) si lavorava in perdita». Fino allo scorso anno Tundo gestiva 1.500 clienti spedendo cannabis in tutta Italia: un lavoro a tempo pieno. A un certo punto, esausto, ha smesso. Si sentiva un volontario. Da marzo ha ricominciato solo per i pazienti della Asl di Lecce, quelli a carico del SSN.
Big pharma si è svegliata. Nel boicottare questa pianta ha pesato anche il disinteresse dell’industria farmaceutica, fino a ora. «Nella legge si dice che verranno promossi studi. Chi li ha visti?», riprende Tundo. «Per me è una presa in giro. Il 99 per cento degli studi sono sponsorizzati da ditte farmaceutiche, la cannabis invece non è brevettabile, non esiste una monografia della cannabis come esiste per l’acido acetilsalicilico. Il 10% di THC della varietà “sativa” ha un effetto energizzante, quello della “indica” invece è rilassante. È una pianta davvero difficile da trasformare in farmaco». Non solo. «Nelle linee guida promosse dalle società scientifiche sul dolore la cannabis non è nemmeno contemplata, anche se sappiamo che funziona molto bene», dice Scaioli. Perché? «I progetti sono finanziati dall’industria farmaceutica che forse ne teme la diffusione. È un errore perché potrebbe funzionare bene in sinergia con altri farmaci, alleviando per esempio il peso degli oppiacei, che hanno più effetti collaterali e creano dipendenza». Ma la legge è restrittiva: la cannabis si può prescrivere solo quando il resto non funziona. «E quando il paziente è diventato farmacoresistente è molto più difficile intervenire». Per contro gli oppiacei, che hanno effetti più pesanti, hanno vita più facile. «Per questi farmaci non c’è una regolamentazione così severa, se non per quelli di un certo tipo», dice Giovanni Careddu, medico dentista e membro dell’associazione Luca Coscioni. «Per esempio l’ossicodone, che è peggio dell’eroina e del metadone, viene prescritto anche per la nevralgia del trigemino e dolori di altro tipo. Pastiglie che mandano il paziente incontro a problemi di dipendenza piuttosto seri, fisici e psichici. Ce l’hanno tutti con questa povera piantina. Sarà diverso se e quando verrà prodotta, commercializzata e prescritta come gli altri farmaci». Questo non succederà in tempi brevi (vedi box), ma Big Pharma si sta portando avanti. A marzo scorso Novartis, quarta industria farmaceutica mondiale, ha stretto un accordo con la canadese Tilray, che produce cannabis per il mercato canadese, latinoamericano, australiano ed europeo. È la prima volta che un gigante entra in questo mercato.
La forza della rivoluzione. A marzo, il numero speciale dello European Journal of Internal Medicine è stato dedicato agli studi in corso. «Il nostro ultimo scopo dovrebbe essere stabilire quale posto compete ai prodotti derivati dalla cannabis nell’arsenale medico moderno », dice Victor Novack, docente alla Ben-Gurion University del Negev, Israele. In pratica si sta cercando di capire se la cannabis possa guarire determinate patologie, come già raccontano migliaia di pazienti nel mondo. Una rivoluzione dal basso che ha capovolto il paradigma della ricerca. «Si era sempre partiti dal laboratorio per poi arrivare al paziente», dice Bertolotto. «Con la cannabis è successo il contrario. Il paziente ha indirizzato la ricerca. Lo dicono anche riviste come The European Journal of Internal Medicine e lo European Journal of Pain: bisogna partire dalla clinica». Il fatto che si tratti di un preparato galenico assunto in tisane, oli, spray, supposte e dosato ad personam sta avendo una conseguenza inaspettata. «Ci costringe a essere umili e a riappropriarci dell’arte della medicina perché dobbiamo rimetterci a seguire il malato come degli artisti». Scaioli fa un esempio: «Ho in cura una persona con fibromialgica cronica che, a parità di THC, non rispondeva al Bedrocan e al Bedrolite. Dopo vari tentativi, siamo arrivati al Bediol che è il giusto compromesso ». Purtroppo pesa ancora lo stigma della droga, «anche se definire come stupefacenti il Bediol e il Bedrolite non ha senso, è antiscientifico». A maggio il prestigioso British Medical Journal ha chiesto con un editoriale della direttrice, Fiona Godlee, che si legalizzi, regoli e tassi la vendita di tutte le droghe leggere e pesanti, per uso terapeutico e ricreativo. La comunità scientifica è entrata in fibrillazione. La legalizzazione darebbe un impulso fortissimo alla ricerca. «Ogni volta che frequento seminari c’è sempre un fronte a favore e uno contro. Non capisco. Bisognerebbe fare come per l’aspirina e la morfina: chiedersi se funziona o meno. Invece per alcuni cannabis equivale a drogare le persone», dice Massimo Nabissi del gruppo di ricerca di Patologia Generale e Immunologia dell’Università di Camerino, autore del lavoro da cui nascerà il primo studio clinico sul mieloma multiplo (un tumore del sangue). «Il lavoro è stato preso come riferimento per depositare un brevetto da parte di due ditte farmaceutiche straniere sull’uso di derivati». Ma è difficile reperire i finanziamenti, tanto che si lancerà un crowdfunding. «Si dice che non ci sono i dati per condurre esperimenti in vivo, ma fino a che il Ministero o l’industria farmaceutica non si muoveranno sarà molto difficile. Bisognerebbe fare un tavolo tecnico e stabilire un protocollo sperimentale per patologie poco curabili » (a questo proposito, non abbiamo ricevuto risposta alle domande da noi inviate a Germana Apuzzo, direttore Ufficio centrale stupefacenti del Ministero della Sanità). In Israele, dove la cannabis è legale dal 1990, questo invece accade già: gli scienziati stanno esplorando gli effetti su malattie croniche dell’intestino, epilessia, autismo. «C’è uno studio in vivo su pazienti affetti da glioblastoma (un tumore al cervello) e uno sugli animali per il mieloma multiplo. Anche in Canada e Australia stanno valutando la possibilità di fare studi su alcune patologie tumorali», continua Nabissi. In Italia, dove all’Università di Padova è nato il primo corso di specializzazione sulla cannabis medicinale, il passaparola sugli effetti terapeutici è inarrestabile. «I pazienti chiedono a dr Google e poi arrivano alle visite più informati di noi. Questo ci crea disagio, ma anche stimolo alla formazione scientifica», dice Vittorio Guardamagna, direttore dell’Unità di Cure Palliative e Terapia del Dolore dello IEO di Milano. Tutti pazzi per la cannabis: una moda? Scaioli esclude. «Se i pazienti continuano a cercarla nonostante i problemi è perché ne hanno beneficio. Gli effetti sono verificati». E cita il caso di una paziente con sclerosi multipla che da anni non ha recidive; un epilettico che controlla benissimo le ormai rare crisi; un’altra paziente con glioblastoma che «ha ricominciato a parlare. Il tumore si è ridotto di un terzo in tre mesi». La cannabis rivoluzionerà la terapia oncologica? «È presto per entusiasmarsi », dice Guardamagna. «Sicuramente sappiamo che in vitro rallenta o blocca la crescita delle cellule tumorali. Conosciamo storie di pazienti che ne dimostrano l’efficacia sorprendente. Ma non c’è ancora una visione uniforme sul tipo di cannabinoidi da usare e i dosaggi. L’anno prossimo, previa autorizzazione, inizieremo i primi studi clinici sui tumori solidi: colon, pancreas, stomaco, mammella, prostata. Non possiamo più aspettare: sono i pazienti a chiedercelo. È arrivato il momento di partire».
QUAL È IL QUID DELLA CANNABIS
È una pianta misteriosa o comunque restia a rivelare i suoi segreti. Ma Giuseppe Cannazza, ricercatore in chimica farmaceutica presso l’Università di Modena e temporary advisor dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, si è incaponito. A lui dobbiamo un metodo di estrazione più semplice di quello precedente (messo a punto da Luigi Romano e Arno Hazekamp), che conserva i terpeni, sostanze non ancora studiate a fondo ma di cui sappiamo che hanno un effetto terapeutico. Cannazza vuole scoprire l’essenza della pianta. «Ero scettico sui fitoterapici e mi sono confrontato con altrettanto scetticismo. Sulla canapa ho dovuto ricredermi. Me ne sono “innamorato”, mi sono messo a ricercare sotto la pressione dei pazienti. Quando vedi un grande numero di persone ottenere benefici, hai il dovere di capire perché, che cosa c’è dentro. E dentro c’è di tutto e di più», dice a D. Pochi farmacisti sanno estrarre l’olio. Perché è difficile ottenere un farmaco di sintesi? «Mancano studi, da un punto di vista chimico, che ci permettano di correlare l’esatta composizione con l’attività farmacologica. Dire cannabis non significa nulla se non si sa bene che cosa è contenuto nell’infiorescenza e quanto principio attivo abbiamo estratto nella preparazione finale. Un farmaco deve avere un contenuto preciso di principio attivo, come succede con la morfina: il medico non prescrive oppio. Il chimico individua la molecola attiva (la morfina), la isola e la sintetizza per ottenere un prodotto farmaceutico. La cannabis ci ha spiazzato perché non funziona così. Ha oltre 500 molecole e probabilmente è necessaria la presenza simultanea di più principi attivi. Per esempio, il Bedrocan e Bediol hanno diverse concentrazioni di THC e CBD e hanno effetti diversi». Però tentativi sono stati fatti. «Negli anni ’80 abbiamo creato il Marinol – TGC senza fitocomplesso – per combattere nausea e vomito, ma i pazienti gli preferiscono la cannabis. Altro problema: non c’è un protocollo di estrazione standardizzato per i farmacisti. Che invece sarebbe fondamentale, perché metodi diversi cambiano la composizione chimica».